Il Castello di Fénis: quando la pietra racconta leggende e la storia sussurra tra le mura

Ci sono luoghi che non si visitano, ma si attraversano come sogni. Luoghi che non si spiegano, ma si sentono – nel silenzio delle pietre, nel respiro dei corridoi, nel profilo delle torri che si stagliano contro il cielo alpino. Il Castello di Fénis, nel cuore della Valle d’Aosta, è uno di questi. Non è solo un maniero medievale ben conservato. È un portale. Un portale verso un altrove fatto di simboli antichi, storie familiari dai toni epici, fantasmi sussurrati e magia. Sarà che ho un debole per le leggende, che sono cresciuta a pane e romanzi cavallereschi, ma a Fénis mi sono sentita a casa. Non la casa quotidiana del caos moderno, ma quella più profonda e arcaica, dove la memoria si fa eco e ogni scalino sembra riportarti in un’epoca in cui bastava una stella a otto punte per proteggere un’intera casata.

A colpirmi per prima è stata la posizione. Fénis non si arrocca sulla cima di uno sperone roccioso per respingere assedi, non urla al mondo il suo bisogno di difendersi. No. Fénis è lì, su un poggio morbido, come se volesse solo essere visto. Ammirato. Compreso. Una dichiarazione d’intenti già in epoca medievale: il castello come status symbol, come immagine scolpita nel paesaggio per raccontare il prestigio e il potere della famiglia Challant. E questo è ciò che affascina: il Castello di Fénis non è solo architettura difensiva, è narrazione visiva. Le doppie mura merlate, le torri compatte, le decorazioni interne e soprattutto il celebre cortile affrescato non servono a combattere, ma a comunicare. È un castello che parla.

La saga dei Challant: nobiltà, ambizione e cadute

A differenza di tante roccaforti abbandonate a un destino di rovine, Fénis ha avuto la fortuna – e la sfortuna – di passare attraverso le mani di uomini che l’hanno amato e dimenticato, restaurato e lasciato decadere. Dal 1242, quando entra per la prima volta nei documenti, ai fasti del XIV e XV secolo sotto Aimone e Bonifacio di Challant, fino all’oblio seguito alla vendita a un conte piemontese: il destino di Fénis è una parabola perfetta da romanzo storico.

E se non fosse stato per Alfredo d’Andrade, architetto e visionario, oggi parleremmo di un rudere. Invece lui lo ha guardato con occhi da innamorato del passato, lo ha ricostruito rispettando il suo spirito originario e lo ha restituito all’Italia come dono. Un gesto romantico, ma anche profondamente civile. Perché i castelli, come le leggende, non devono sparire. Devono continuare a raccontare.

Salire i secoli, una sala dopo l’altra

Visitare Fénis è come leggere un manoscritto miniato, pagina dopo pagina. Entrando si attraversa una torre quadrata, si percorrono sale d’armi e refettori, si immaginano soldati che dividono il pane e focolari che accolgono racconti notturni. Poi si sale, e si entra nel cuore nobile del castello: la cappella, la stanza del signore, le sale di rappresentanza. Ogni spazio vibra di vita vissuta, ma anche di domande: chi sedeva qui? Chi ha pronunciato l’ultima sentenza in quella sala di giustizia? Chi ha posato gli occhi sull’affresco di San Giorgio, vedendo in quel drago un nemico simbolico?

E sopra tutto, su quelle balconate in legno, i profeti ci guardano. Con i loro motti in francese antico, sembrano ammonirci e confortarci insieme. A me hanno sussurrato di non dimenticare. Di ascoltare. Di cercare.

Simboli, magie e presenze che non passano mai

La parte più potente di Fénis, per me, è quella invisibile. I segni lasciati tra le righe della pietra, i simboli che sembrano casuali e invece custodiscono mondi. Il numero sette dello scalone, la stella a otto punte – il nastro dell’eternità –, gli affreschi che celano significati iniziatici… ogni elemento è lì per chi sa guardare oltre la superficie.

E poi c’è la leggenda del fantasma: una donna spietata, un bambino sacrificato per avidità, e un’anima che ancora si aggira, leggera e malinconica. Lo so, sono storie, si dirà. Ma in luoghi come questo, le storie hanno un peso reale. E io, in certe stanze, ho davvero sentito qualcosa muoversi. Non paura, ma nostalgia. Come se qualcuno – o qualcosa – stesse ancora aspettando di essere ascoltato.

Dalla leggenda al cinema: Fracchia e la Transilvania valdostana

Chi, come me, ama i legami tra storia e finzione, troverà delizioso sapere che Fénis è stato anche il castello di Dracula. Almeno nella parodia con Paolo Villaggio, Fracchia contro Dracula. Perché il cinema, come le leggende, ha bisogno di scenari che sappiano parlare anche senza effetti speciali. E Fénis, in questo, è perfetto: gotico, maestoso, evocativo.

Fénis: il luogo dove le leggende si fanno pietra

Alla fine, il Castello di Fénis non è solo un luogo da visitare. È un compagno di viaggio. È un narratore silenzioso, un libro scolpito nella roccia. Ci racconta la storia dei suoi signori, ma anche la nostra sete di meraviglia. Ci mostra quanto l’umanità abbia bisogno di costruire simboli, protezioni, segni d’eternità. In un’epoca in cui l’immaginario si è spostato sul digitale – dove ci trasformiamo in figure stile Ghibli, in action figure nel nostro blister personalizzato, o in santi medievali ironici con ChatGPT – c’è qualcosa di potentemente rassicurante nel toccare con mano una storia vera. Vera, ma non meno magica. E forse è proprio questo il senso più profondo di Fénis: ricordarci che prima dei prompt e degli avatar, c’erano castelli che parlavano. E che, se ci fermiamo ad ascoltarli, parlano ancora.

E se vi va, raccontatemi la vostra esperienza. Avete già visitato Fénis? Cosa vi ha colpito di più? Avete sentito anche voi una presenza tra le stanze? Scrivetelo nei commenti o condividete questo articolo sui vostri social, magari insieme a qualche foto! I castelli non sono solo pietre antiche… sono storie vive, e meritano di essere raccontate.

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