Ma che diamine ho appena letto? Sul serio, “I Sette Figli del Drago” di Ryoko Kui è uno di quei manga che ti prende in contropiede e ti schiaffa in faccia sette storie così assurde, geniali, poetiche e fuori di testa che ti ritrovi alla fine del volume a fissare il vuoto pensando: ma perché non l’ho letto prima?!
Pubblicato da J-POP Manga, questo volume unico è una raccolta di sette racconti autoconclusivi che ci fanno volare dalla fantasy medievaleggiante al Giappone moderno passando per realtà alternative dove sirene giocano a baseball e artisti danno vita alle loro opere con un occhio solo. E tutto questo è frutto della mente di Ryoko Kui, già autrice del capolavoro Dungeon Food, che ci aveva già dimostrato di avere un talento fuori scala nel mescolare fantasy e quotidianità con un’ironia da manuale. Se ancora non siete caduti ai suoi piedi, questo libro vi darà la spinta definitiva.
Ogni storia di questa raccolta è un piccolo universo a sé. In La torretta del drago, ad esempio, c’è un drago che si piazza tra due regni in guerra e blocca tutto. Ma non è una storia d’azione, è una roba che parte come fiaba e finisce per parlare di diplomazia, empatia e… amore per il meraviglioso. Vietato pescare le sirene, invece, ci fa incontrare una sirena testarda e un protagonista che più sfigato non si può, in una storia dolcissima ma anche profonda, che tira fuori domande esistenziali sulla diversità senza risultare pesante. E la sirena? Tenerissima, ve lo giuro.
Poi c’è La mia divinità, con un dio-pesce imbranato e una ragazzina alle prese con gli esami: sembra una storia semplice ma riesce a toccare corde insospettabili con ironia e malinconia. Ma quando sono arrivata a I lupi non mentono, ragazzi, lì ho ceduto. Una sorta di versione alternativa di Wolf Children, ma più cruda, più ironica, più sincera. E quel legame madre-figlio, visto attraverso la “sindrome del lupo”, mi ha dato il colpo di grazia.
Con Byakuroku lo squattrinato si viaggia nel tempo, in un Giappone da ukiyo-e vivente, dove un vecchio artista povero crea un suo doppio animato per portare in giro le sue opere. Un trip visivo e narrativo che parla di arte, solitudine e seconde possibilità con una delicatezza che disarma. E vogliamo parlare del fatto che l’opera prende vita perché lui non disegna mai la seconda pupilla? Genio.
Quando i bimbi fanno i bravi si sente il drago cambia tono, si fa cupa, più avventurosa. Una donna in lutto accompagna un principe in cerca di una scaglia di drago per salvare suo padre… ma le cose non sono come sembrano. Questa è la storia che mi ha lasciato più perplessa, ma in senso buono: è densa, più contorta, ma ha quel twist finale che ti fa rivalutare tutto.
Infine, La famiglia Inutani chiude il volume con una risata. Una ragazza che trasforma ogni vestito in pigiami. Ma come le vengono certe idee?! Ed è proprio qui che si capisce la vera potenza di Ryoko Kui: riesce a prendere concetti che in mano ad altri farebbero ridere per i motivi sbagliati, e li trasforma in storie adorabili, intelligenti e che ti restano addosso.
A livello grafico, lo stile è riconoscibilissimo: tratti morbidi, tavole pulite, espressività alle stelle (anche se a volte i nasi scompaiono, ma chi se ne frega?). Non ci sono pagine a colori, l’edizione J-POP è dignitosa, anche se nulla di eclatante. Ma il contenuto? Fuori scala. E per meno di dieci euro, abbiamo tra le mani un manga che non solo si legge d’un fiato, ma che ti fa venir voglia di recuperare tutto quello che questa autrice ha mai disegnato, comprese le sue liste della spesa.
Se siete stufi delle solite serie infinite, se volete un fantasy diverso, a volte delicato, a volte comico, a volte profondo e altre completamente folle, I Sette Figli del Drago è quello che fa per voi. Fidatevi di chi legge manga da più tempo di quanto abbia memoria: Ryoko Kui è una delle penne (e matite) più brillanti in circolazione.
E ora la palla passa a voi: lo avete letto? Avete altri manga antologici da consigliarci che vi hanno fatto lo stesso effetto di questa bomba fantasy? Scriveteci nei commenti e fate girare l’articolo, che le sirene di Ryoko Kui meritano più pubblico di quello di una finale di Champions!
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