Ci sono luoghi che sembrano scolpiti nel cuore delle persone, impregnati di storia, cultura, memoria collettiva. Poi ci sono i parchi divertimento. O meglio, ci sono i parchi divertimento visti con gli occhi incantati di un appassionato di pop culture come me, che non riesce a visitarli senza sentirsi al tempo stesso travolto dall’euforia e attraversato da una sottile, quasi inspiegabile malinconia. Perché, diciamocelo, un parco divertimenti non è solo un posto dove fare un giro sulle montagne russe o scattarsi selfie con mascotte giganti. È un’esperienza totalizzante, immersiva, che ha il potere magico – e inquietante – di farti dimenticare per qualche ora chi sei, dove sei, da dove vieni.
Non è un caso se Marc Augé, raffinato sociologo francese, ha battezzato i parchi divertimento come perfetti “non luoghi”. E cosa vuol dire, esattamente, “non luogo”? È uno spazio che non appartiene a nessuno e a tutti, anonimo, interscambiabile, dove le persone passano senza lasciare traccia, senza creare legami. Gli aeroporti, i centri commerciali, le stazioni di servizio sull’autostrada: tutti posti in cui siamo semplicemente di passaggio, eppure pieni di una loro estetica e funzionalità. Il parco divertimenti, però, ha una particolarità unica: è un non luogo che ha fatto delle emozioni il suo prodotto di punta.
Prendiamo Disneyland, il capostipite moderno di questo genere di spazi, il sogno di Walt Disney diventato realtà nel 1955 ad Anaheim, California. Un luogo che, a prima vista, è tutto tranne che anonimo: castelli da fiaba, pirati, fantasmi, principesse, Topolino, Paperino, luci, suoni, profumi zuccherini. Eppure, proprio lì, sotto la superficie scintillante, si cela la perfezione del non luogo di Augé. Perché a Disneyland non ci interessa sapere dove siamo davvero, quale sia il contesto sociale, politico, geografico. Potremmo essere in California, a Tokyo, a Parigi, ad Hong Kong: la formula è sempre la stessa, replicata con chirurgica precisione, standardizzata, affinata per garantire a tutti lo stesso pacchetto emozionale, come un fast food delle meraviglie.
E questa formula, diciamocelo, funziona. Funziona così bene che nel 2022, secondo il rapporto TEA/AECOM, i parchi divertimento hanno accolto 1,2 miliardi di visitatori nel mondo, segnando un +3,7% rispetto all’anno precedente. Numeri da capogiro, che confermano quanto queste cattedrali del divertimento siano diventate centrali non solo nel turismo globale, ma anche nell’immaginario collettivo. La gente non va più al parco solo per fare un giro sulla giostra: ci va per vivere un’esperienza completa, per provare – e riprovare – felicità, adrenalina, paura, meraviglia.
Queste emozioni, però, sono sapientemente confezionate. Sono emozioni industrializzate. Quando entri in un parco divertimenti, è come se ti venisse consegnato un menu: qui puoi ridere, lì puoi spaventarti, là puoi emozionarti fino alle lacrime. Ogni attrazione è calibrata, testata, perfezionata per suscitare in te una reazione precisa, quasi scientifica. È un’emozione “preconfezionata”, ma non per questo meno intensa. Anzi: proprio perché ripetibile, standardizzata, garantita, l’esperienza diventa in qualche modo rassicurante. Un po’ come rivedere per la centesima volta “Star Wars” o “Il Signore degli Anelli”, sapendo già che certe scene ti faranno sempre battere il cuore.
Anche in Italia abbiamo i nostri non luoghi del divertimento. Gardaland, inaugurato nel 1975 sulle rive del Lago di Garda, è diventato nel tempo uno dei più grandi e visitati parchi d’Europa. Nonostante la sua italianità di facciata, anche qui il modello segue fedelmente i canoni internazionali. Le attrazioni sono un mix di adrenalina e family friendly, la tematizzazione spazia dall’esotico al fantasy, e il parco diventa un palcoscenico dove le emozioni vengono messe in scena per un pubblico di famiglie, teenager, appassionati e nostalgici.
Ma allora, viene da chiedersi: se tutto è artificiale, se le emozioni sono “costruite”, è tutto finto? Personalmente, non credo. Anzi, proprio da nerd cresciuta a pane e pop culture, penso che ci sia qualcosa di profondamente autentico in questa ricerca di esperienze emozionali, anche quando sappiamo che sono confezionate a tavolino. È un po’ come quando piangiamo guardando un anime struggente, pur sapendo che dietro quei personaggi ci sono solo disegni e doppiatori. La sospensione dell’incredulità è il motore stesso della magia.
I parchi divertimento, insomma, sono non luoghi, sì, ma sono anche straordinari specchi della nostra epoca. Raccontano il bisogno umano di evasione, di sogno, di ripetizione rituale delle emozioni. Trasformano la paura in intrattenimento, la nostalgia in business, la gioia in biglietti venduti. E noi ci caschiamo ogni volta, felici di farlo, perché sappiamo che dentro quel castello, dentro quella montagna russa, dentro quella parata scintillante, troveremo – almeno per un po’ – un pezzo della nostra infanzia, un frammento di quel senso di meraviglia che, nel caos del mondo reale, rischiamo sempre di perdere.
E voi, che rapporto avete con i parchi divertimento? Li amate o li detestate? Vi ci perdete come me, lasciandovi trasportare senza freni, o li guardate con distacco, pensando solo ai lunghi minuti in coda? Raccontatemelo nei commenti e, se vi va, condividete questo articolo sui vostri social: chissà che non troviate altri nerd come voi con cui chiacchierare di castelli incantati e montagne russe!
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