In un tempo remoto, perduto fra le sabbie africane di decine di millenni fa, visse una donna di cui oggi non conosciamo il nome, l’aspetto, né le parole che usava per comunicare. Eppure, ogni essere umano vivente oggi porta dentro di sé una traccia inequivocabile di lei: minuscoli filamenti di DNA custoditi nei mitocondri, le centrali energetiche delle nostre cellule. Questa donna, che la scienza ha ribattezzato “Eva mitocondriale“, non è un personaggio biblico, ma un fatto biologico, una figura silenziosa incastonata nell’intreccio molecolare della nostra esistenza.
La scoperta dell’Eva mitocondriale ha rivoluzionato il modo in cui comprendiamo le nostre origini. A differenza del DNA nucleare, che si eredita da entrambi i genitori, il DNA mitocondriale (mtDNA) viene trasmesso quasi esclusivamente dalla madre. Ogni cellula del nostro corpo è quindi una sorta di capsula del tempo, che custodisce intatto questo patrimonio matrilineare. Analizzando le mutazioni accumulatesi nel mtDNA in persone di diverse etnie e provenienze geografiche, i genetisti hanno potuto ricostruire un albero genealogico che converge su un’unica donna vissuta tra i 99.000 e i 200.000 anni fa, molto probabilmente in Africa.
Ma Eva mitocondriale non era sola. Al contrario, condivise il suo mondo con migliaia di altre donne. Ciò che la rende speciale è il fatto che la sua linea matrilineare – quella che attraverso le figlie, e le figlie delle figlie, è giunta fino a noi – non si è mai interrotta. Tutte le altre si sono spezzate lungo il cammino dell’evoluzione. Questo non fu frutto di una superiorità biologica, bensì del caso, dello straordinario gioco della deriva genetica. In ogni generazione, bastava un solo passaggio fallito – nessuna figlia, o nessuna figlia fertile – perché una linea si estinguesse. E così, un filo invisibile ha attraversato millenni, collegando questa donna antichissima a ciascuno di noi.
Eva è, quindi, la più recente antenata comune matrilineare dell’umanità, ma non l’unica antenata. Molti altri uomini e donne del suo tempo hanno lasciato un’eredità genetica nel nostro DNA nucleare, ma solo lei ha lasciato il segno esclusivo e diretto nel nostro DNA mitocondriale.
Il concetto stesso di Eva mitocondriale affascina per la sua semplicità e potenza evocativa, ma si porta dietro una serie di complessità che sfidano le nostre certezze. Per esempio, l’identificazione di questa figura si basa su un’ipotesi fondamentale: che il DNA mitocondriale venga ereditato solo per via materna e non subisca ricombinazione. Tuttavia, alcuni studi recenti hanno messo in discussione questa assunzione. È stato osservato, in rare occasioni, che anche i mitocondri dello spermatozoo possano essere trasmessi al figlio, e vi sono prove di possibili eventi di ricombinazione tra mitocondri materni e paterni. Se questi fenomeni si dimostrassero frequenti, l’intera costruzione concettuale di un’Eva mitocondriale potrebbe sgretolarsi o, quantomeno, richiedere una radicale revisione.
Un altro nodo affascinante è il confronto con il cosiddetto Adamo cromosomiale-Y, il maschio da cui tutti gli uomini viventi oggi discenderebbero per via paterna. Curiosamente, Adamo sembra essere vissuto molto dopo Eva, circa 75.000 anni fa. Questa discrepanza temporale ha alimentato varie ipotesi: forse un secondo collo di bottiglia genetico ha decimato le linee paterne in un’epoca successiva, oppure la poligamia e la disparità riproduttiva maschile hanno accelerato la perdita delle linee Y. In ogni caso, le due figure non erano compagni di vita, né vissuti nella stessa epoca: sono piuttosto metafore scientifiche delle nostre radici biologiche, punti di partenza per riflessioni più ampie su come la vita si perpetua nel tempo.
Eva si inserisce anche in un contesto più ampio, quello della teoria “Out of Africa”, secondo cui l’Homo sapiens moderno si sarebbe originato in Africa per poi diffondersi nel resto del mondo. I dati genetici, in particolare la grande varietà di mtDNA tra le popolazioni africane, suggeriscono che l’umanità abbia trascorso molto più tempo sul suolo africano che altrove. Quando i gruppi migratori lasciarono l’Africa, portarono con sé solo una parte della ricchezza genetica originaria. La costruzione di alberi filogenetici – che mostrano come le linee di mtDNA si siano ramificate nel tempo – conferma questa narrazione, mostrando che tutte le diramazioni extra-africane derivano da una madre africana.
Naturalmente, la scienza non è mai statica. Le filogenie sono costruzioni probabilistiche, e nuove scoperte possono ribaltare ciò che oggi diamo per acquisito. Alcuni ricercatori hanno messo in discussione l’interpretazione africana dei dati, proponendo che anche popolazioni asiatiche possano essere compatibili con l’origine dell’Eva mitocondriale. Tuttavia, con l’affinarsi degli algoritmi e delle tecniche di sequenziamento, le prove a favore della culla africana dell’umanità si sono consolidate.
Resta un ultimo elemento, forse il più suggestivo. L’Eva mitocondriale non è l’antenata di un popolo, ma di tutti i popoli. È un simbolo biologico di unità umana, una testimonianza che tutti noi, a prescindere dal colore della pelle, dalla lingua o dalla cultura, siamo connessi da una stessa, antichissima radice. In un mondo diviso da confini, guerre e pregiudizi, pensare che le nostre cellule raccontino una storia comune potrebbe forse insegnarci qualcosa di essenziale: che la diversità che ci caratterizza è solo la manifestazione superficiale di un’unica grande storia condivisa.
E allora, forse, guardare a Eva non è solo un esercizio scientifico, ma anche un atto di riconciliazione con ciò che siamo stati. Un modo per ricordare che, se torniamo indietro abbastanza a lungo, ogni volto umano si riflette nell’altro.
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