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Ed Gein, l’incubo di Plainfield: l’uomo che trasformò l’orrore in arredamento (e plasmò l’immaginario del cinema)

Ci sono date che restano conficcate nella memoria collettiva come chiodi. Il 16 novembre 1957 è una di quelle: nella fattoria isolata di Edward Theodore Gein, nei campi freddi del Wisconsin, le autorità di Plainfield spalancarono una porta e si ritrovarono in un museo degli orrori che nessuno avrebbe voluto visitare. Sedie rivestite di pelle umana, ciotole ricavate da calotte craniche, maschere di volti appese come quadri blasfemi, mobili e suppellettili costruiti con parti del corpo. Tra tutti quei reperti, una sedia rimane il simbolo più agghiacciante, la fotografia tridimensionale di una depravazione che non aveva più bisogno di metafore. Lì, nell’odore pesante di polvere e decomposizione, si esauriva l’idea stessa di “casa”, sostituita da un teatro della crudeltà.

Edward Gein non è mai stato un “serial killer” nel senso canonico della statistica; le vittime accertate sono due. Eppure, la sua storia supera la contabilità del crimine e scivola in un territorio dove l’omicidio diventa manufatto, l’esumazione si trasforma in artigianato macabro, e il lutto privato — l’assenza della madre — si solidifica in oggetti quotidiani. Gein dissotterrava cadaveri dai cimiteri locali, selezionando corpi di donne di mezza età che gli ricordassero Augusta, la madre. Con quelle spoglie ricreava un mondo “funzionale” ai suoi deliri: vestiti da indossare, maschere da calare sul proprio volto, utensili domestici con cui normalizzare l’innominabile. È una tragedia psichica prima ancora che giudiziaria: l’ossessione filiale annulla la realtà, muta la carne in arredamento, trasforma il lutto in performance segreta.

La radice del male: famiglia, religione, isolamento

Nato il 27 agosto 1906 a La Crosse, nel Wisconsin, Gein cresce in una fattoria di Plainfield dentro un bozzolo di solitudine. Il padre, George, è un alcolista instabile; la madre, Augusta, luterana rigorista, coltiva un’educazione impregnata di colpa, condanne bibliche e misoginia. La casa non è un focolare, ma una fortezza morale: scuola, lavori agricoli e sermoni pomeridiani sull’Antico Testamento, dove morte e punizione non sono concetti astratti, ma ammonimenti quotidiani. Ed è un ragazzino mingherlino e schivo, con una risata fuori posto e uno sguardo che pare sempre altrove. Bullizzato a scuola, funziona meglio tra i libri che tra i coetanei; quando rientra, trova una madre che demonizza il sesso e le donne, escludendo se stessa dall’anatema. Il rapporto con il fratello Henry, più pragmatico e critico verso Augusta, si spezza nel 1944 durante un incendio in circostanze mai del tutto chiarite. Lì, forse, si incrina definitivamente anche l’ultimo ponte con il mondo.

Nel 1945 muore Augusta. È il collasso del suo cosmo. Gein chiude a chiave le stanze della madre, le imbalsama con la cura del sacro, e lascia che il resto della casa marcisca. Vive di lavoretti, perfino da babysitter, sfogliando pulp magazine ossessivamente centrati su atrocità e corpi violati. L’ossessione prende forma: la donna-madre come archetipo irraggiungibile e, insieme, modellabile. È in questa intercapedine che si apre la botola.

Plainfield, 1957: dal negozio di ferramenta alla casa-macello

Il 16 novembre scompare Bernice Worden, proprietaria della ferramenta in città e madre del vicesceriffo. Nel negozio restano il registratore aperto, macchie di sangue sul pavimento e uno scontrino: “antigelo”, acquistato da Ed Gein quella mattina. Gli agenti lo arrestano poche ore dopo. Nella proprietà scoprono un capanno con il corpo di Bernice, decapitata e appesa per le caviglie, squarciata “come un cervo”. Dentro la casa, l’inventario stringe la gola: teste femminili impiegate come “ornamenti”, maschere create da volti scorticati, un corsetto ricavato da un torso, una cintura fatta di capezzoli, gambe di tavolo composte con femori. E ancora: labbra applicate come bordura a una finestra, lampade con paralumi di pelle, teschi svuotati per farne scodelle. Un arredo integrale che pratica il blasfemo con metodo domestico, replicando — a modo suo — il regno perduto della madre.

Gein confessa di aver profanato tombe a ripetizione, guidando gli investigatori tra lapidi recenti e bare ancora non assestate. Racconta di un “trance”, di notti in cui la coscienza gli si appannava e lui scavava, sceglieva, tagliava, trasportava. Aggiunge l’omicidio di Mary Hogan, ostessa scomparsa nel 1954, e lascia intendere di più, senza prove conclusive. Gli psichiatri leggeranno in quella condotta una miscela disturbante di disforia identitaria, ritualità travestita e una necrofilia negata, giustificata da Gein con una frase che la dice lunga sul suo modo di negare l’evidenza: i cadaveri “puzzavano troppo”.

L’abito della madre: identità, travestimento, negazione

Molti studiosi colgono nell’“abito di pelle” il gesto più rivelatore. Non è soltanto un feticcio. È un tentativo di reincarnazione, il travestimento come ponte impossibile con Augusta. In casa, l’unico spazio lindo è la camera della madre, inviolata come un altare domestico; tutto il resto deperisce, si fa discarica e laboratorio. Gein prova a costruirsi addosso la matrice femminile, a indossare la sua assenza. È una liturgia privata che cerca una forma nel corpo degli altri, in un bricolage di pelle e cuciture.

Processo, ricovero e coda della storia

Dichiarato inizialmente incapace di affrontare il processo, Gein viene internato. Nel 1968 i medici lo ritengono abbastanza lucido per comparire in aula; sarà comunque assolto per infermità mentale e passerà il resto della vita tra ospedali psichiatrici e reparti di massima sicurezza. Muore il 26 luglio 1984, a 77 anni, per insufficienza respiratoria dovuta a un tumore, nel Mendota State Hospital di Madison. La sua tomba a Plainfield verrà vandalizzata più volte, fino al furto della lapide nel 2000, poi recuperata l’anno successivo e conservata in un museo locale. La fattoria, intanto, brucia nel marzo 1958 in un incendio quasi certamente doloso. Nello stesso anno la sua Ford del ’49, usata per trasportare i corpi, diventa un’attrazione da fiera: la “Ed Gein Ghoul Car”, biglietto a pagamento e polemiche assicurate, finché lo Stato del Wisconsin non ne vieta l’esposizione. La spettacolarizzazione dell’orrore comincia qui, ben prima degli streaming odierni.

Dal caso alla leggenda nera: quando Hollywood bussa a Plainfield

Se c’è un “merito” perverso da riconoscere a Ed Gein, è quello di aver generato archetipi. La sua vicenda rimbalza nel romanzo “Psycho” di Robert Bloch (1959) e, un anno dopo, diventa l’ombra lunga che Alfred Hitchcock proietta su Norman Bates. Nel 1974 Tobe Hooper scolla l’orrore dalla claustrofobia del motel e lo spedisce tra segherie e maschere di pelle: nasce Leatherface in “The Texas Chainsaw Massacre”, uno dei mostri più riconoscibili del cinema horror. Nel 1991 Jonathan Demme distilla da Plainfield un’altra figura iconica, Buffalo Bill, e lo incastra nel labirinto de “Il silenzio degli innocenti”, tra farfalle della morte e cuciture sulla pelle. Da lì, un fiume in piena: “Deranged – Il folle” (1974), biopic apocrifi come “Ed Gein – Il macellaio di Plainfield”, serie antologiche, citazioni, omaggi e derive. Nel 2025 è stata pubblicata sulla piattaforma streaming Netflix la terza stagione della serie antologica Monster incentrata sulla storia di Ed Gein, interpretato da Charlie Hunnam. La cultura pop assimila e rilavora, dalla musica metal — dagli Slayer ai Mudvayne, passando per alias come “Gidget Gein” — al teatro d’autore, fino ai videogiochi che prendono a prestito il mito del “conciatore di corpi” per costruire boss e livelli.

La verità è che Gein ha fornito una grammatica. Ha reso “visibile” ciò che l’horror amava suggerire: la casa come trappola, la madre come fantasma fondativo, il corpo come materia prima da rimodellare. È una grammatica che il cinema continua a parlare, perché parla di noi. Delle nostre case e dei nostri fantasmi.

Cosa resta di Plainfield?

Resta, anzitutto, la consapevolezza che un caso di cronaca può cambiare il modo in cui raccontiamo la paura. Resta il disagio per quella sedia rivestita di pelle, la più domestica delle presenze, la più inaccettabile. Resta l’immagine di un uomo che prova a cucirsi addosso un’identità con gli strumenti sbagliati e la materia sbagliata, inseguendo la madre nel luogo più inaccessibile: la perdita. Resta anche il trauma collettivo di una comunità rurale che si scopre teatro di un abisso, con la normalità dei gesti — comprare l’antigelo, chiudere la cassa, appendere un cappotto — che all’improvviso vibra di un significato sinistro.

Ma resta, soprattutto per noi che viviamo e raccontiamo la cultura pop, la necessità di guardare a questi miti neri senza scadere nell’estetizzazione sterile. Perché dietro ogni maschera di pelle c’è una vittima, dietro ogni citazione cult c’è un corpo scomparso, dietro ogni archetipo c’è una storia vera che non smette di fare male.

Nel presente, la figura di Ed Gein continua a generare narrazioni, nuove stagioni televisive, revisioni e controcanti. Ogni ritorno a Plainfield è un ritorno nella stanza chiusa della madre, un tentativo di capire perché certe storie non smettono di abitarci. Forse perché sono specchi storti: rimandano un’immagine deformata, ma pur sempre nostra. E il brivido che proviamo, quando scorriamo titoli e fotogrammi, è il promemoria che l’horror più riuscito resta sempre quello che ci costringe a guardare la realtà con un centimetro di pelle in meno.

Se questo viaggio nell’incubo vi ha stuzzicato pensieri, memorie di film o letture che vi hanno segnato, raccontatecelo nei commenti. La conversazione — come la leggenda — non finisce qui.

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