Ci sono storie che, come la nebbia che avvolge una vecchia magione vittoriana, s’insinuano tra le pieghe della memoria collettiva e non ci lasciano più. Una di queste è “Frankenstein” di Mary Shelley, racconto immortale di ambizione e solitudine, di amore negato e di creazione che sfugge al controllo del suo stesso artefice. Ma cosa accade quando questo archetipo del terrore ottocentesco finisce sotto l’inconfondibile lente della Disney? Succede qualcosa di meraviglioso, qualcosa che – come una scarica elettrica in una notte tempestosa – ridà vita al gotico, rivestendolo di piume, beccucci e paperi. Signore e signori, vi presento “Duckenstein di Mary Shelduck”.
Dietro questa elegante e teneramente inquietante parodia si cela l’ingegno brillante di Bruno Enna e il tratto suggestivo e teatrale di Fabio Celoni, due autori che hanno dimostrato di saper mescolare umorismo e brivido in una danza perfettamente bilanciata. Pubblicata originariamente tra le pagine di Topolino nel 2016, la storia venne concepita per commemorare il 165° anniversario della scomparsa di Mary Shelley, la madre di tutti i mostri. Ed è proprio da questo tributo che nasce la loro creatura cartacea: un’opera che non ha paura di scavare nei meandri dell’animo umano… o meglio, del piumaggio papero.
Un incipit da brividi: il diario del capitano Walton (alias Ciccio)
Tutto inizia in un gelido paesaggio polare, dove il buon Ciccio Walton, parodia del Robert Walton del romanzo originale, affida al suo diario una narrazione piena di gelo, misteri e creature mostruose. Ed ecco che appare lui: Victor von Duckenstein, nobil papero europeo alla deriva tra i ghiacci, portatore di una storia torbida che ha il sapore dell’incubo e la dolcezza malinconica dei ricordi di gioventù.
La narrazione ci trasporta in un passato che sa di candele tremolanti e laboratori impregnati d’ozono, dove il giovane Victor – nato a Napoli ma cresciuto tra le montagne ginevrine – comincia il suo viaggio verso l’abisso dell’ambizione scientifica. I suoi sogni sono animati da alambicchi e libri polverosi, dai testi dei leggendari Anatro Magno e Paper Celso, saggi alchimisti che credevano di poter animare l’inanimato. Ed è qui che la Disney si diverte, con raffinata ironia, a mischiare la scienza classica al linguaggio delle parodie pop, tra cartoni animati e creature disegnate.
Una creatura fatta di sogni e cartone: il nascere di Growl
Con la febbrile determinazione che fu del dottor Frankenstein, anche il nostro papero riesce infine a infondere vita a una sua creazione. Ma – e qui Celoni dà il meglio con le sue atmosfere gotiche degne di Gustave Doré – la creatura, battezzata “Growl”, non è fatta di carne e sangue… bensì di cartone. Il che, diciamolo, è la più geniale delle trovate: una creatura nata dalla materia dei sogni, fragile ma vivace, che prende vita durante un temporale, tra scariche elettriche e pagine che volano.
Growl non è solo un mostro, ma un cucciolo smarrito nel mondo degli uomini (e dei paperi). La sua solitudine è palpabile, il suo desiderio di comprensione e compagnia è struggente. In un crescendo di pathos degno di un melodramma d’altri tempi, Growl trova rifugio in una fattoria abitata da un nobile decaduto – Dinamite De Blacey – e impara, in solitudine, il linguaggio e la lettura. Un Pinocchio gotico, insomma, che invece di diventare bambino, sogna solo di non spaventare più chi lo guarda.
Amore, vendetta, redenzione: i tormenti di Victor
Nel frattempo, Victor è travolto dalla vergogna e dalla perdita. Daisy Beth – Paperina – sembra destinata a un matrimonio combinato col vanesio Gaston Clerval, mentre Victor affonda nella malinconia più cupa. E come ogni eroe gotico che si rispetti, torna nel luogo dove tutto è iniziato: il laboratorio, il peccato originale.
Ma la Disney non si limita a una semplice trasposizione del romanzo. No, qui ci mette del suo. Perché i veri protagonisti della redenzione saranno i piccoli Wilm, Wolf e Waldo (ovvero Qui, Quo e Qua), che stringono un’alleanza segreta con Growl per aiutare il loro zio a ritrovare se stesso.
Il crescendo finale è un turbine di torce, forconi, coraggio e poesia. Growl, braccato dalla folla, cerca rifugio, mentre Victor si riscopre artista e creatore in un modo nuovo: non per sfidare la natura, ma per immaginare un mondo dove le sue creazioni possano finalmente trovare casa.
Epilogo: occhi da bambino
Il colpo di scena conclusivo – con Growl che torna dal suo creatore a bordo della nave di Walton – ha un sapore agrodolce. Un finale che non ha paura di toccare le corde della malinconia, ma che si chiude con una lettera colma di speranza. La voce narrante di Walton ci lascia con una verità disarmante: “non bisogna mai giudicare dalle apparenze, e bisogna sempre guardare il mondo con gli occhi di un bambino”.
Perché “Duckenstein di Mary Shelduck” è un capolavoro da riscoprire
Non è solo una parodia. È una lettera d’amore al gotico ottocentesco, al pathos romantico, all’arte della narrazione come strumento per esorcizzare le nostre paure più intime. Enna e Celoni ci regalano un’opera che merita ben più di una lettura distratta: va amata, analizzata, collezionata. In un’epoca dove l’horror è spesso urlato, “Duckenstein” è un sussurro poetico, un battito d’ali tra le nebbie.
E voi? Avete già letto questa gemma disneyana dalle tinte oscure? Se l’avete fatto, raccontatemi le vostre impressioni: vi ha fatto ridere, commuovere, riflettere? E se non l’avete ancora fatto… beh, cosa aspettate? Condividete questo articolo con chi ama la Disney che osa, quella che sperimenta, che gioca con i classici e ci fa riscoprire il brivido del gotico. Taggatemi nei vostri post, e lasciate che il mostro di Duckenstein prenda vita anche nei vostri cuori!
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