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Cobra Kai: quando la nostalgia diventa mito e redenzione (con qualche pugno allo stomaco emotivo)

Avete presente quella sensazione di tornare a casa dopo tanto tempo? Ecco, Cobra Kai è esattamente questo: un ritorno in grande stile nell’universo di Karate Kid, ma con la consapevolezza (e le cicatrici) del tempo che passa. Non è solo una serie, è un’operazione nostalgia con il cuore, l’anima e… i calci rotanti.

Ideata da Hayden Schlossberg e Jon Hurwitz, la serie nasce come sequel diretto dei leggendari film degli anni ’80 e ci riporta nel mondo di Daniel LaRusso e Johnny Lawrence, interpretati ancora da Ralph Macchio e William Zabka. Due nomi che, se eri adolescente negli anni del walkman e dei flipper, ti facevano vibrare di emozione (o ti spingevano a scegliere da che parte stare). E la bellezza di Cobra Kai è che ti costringe, ancora oggi, a scegliere.

All’inizio la serie trova casa su YouTube Premium, ma è con il passaggio su Netflix che diventa un fenomeno globale. Perché? Perché Cobra Kai fa ciò che poche serie reboot riescono a fare: rispettare il materiale originale, ma osare, evolversi e parlare a una nuova generazione. E tutto comincia così: Johnny è un uomo alla deriva, Daniel un imprenditore di successo che vende auto di lusso con sorrisi pubblicitari. Le vite si sono ribaltate e quando Johnny decide di riaprire il dojo Cobra Kai per aiutare un ragazzo bullizzato, Miguel, il passato torna a mordere forte.

Da qui parte una giostra di rivalità, conflitti generazionali, amicizie spezzate e nuovi inizi. La scrittura è astuta, perché ci fa affezionare tanto ai “vecchi” quanto ai “nuovi”. Miguel, Robby, Sam, Tory, Hawk e Demetri diventano figure centrali in un racconto che intreccia il passato con il presente in una danza perfetta di emozioni e combattimenti.

Ogni stagione è un passo avanti nella trasformazione dei personaggi. Johnny, in particolare, è il cuore pulsante della serie. È ruvido, fallibile, a volte inopportuno, ma anche incredibilmente autentico. Il suo viaggio di redenzione è uno dei più sinceri che abbia mai visto in una serie TV. E se Daniel rappresenta la disciplina e l’onore del Miyagi-Do, Johnny è la grinta, la passione, l’istinto dell’Eagle Fang. Due visioni opposte che solo insieme possono funzionare davvero.

L’ingresso di vecchie conoscenze come John Kreese e Terry Silver non è solo fanservice, è una riflessione sulla tossicità delle ideologie del passato e su quanto sia difficile, ma necessario, liberarsene. Kreese è l’ombra lunga che minaccia di riportare tutti al punto di partenza, mentre Silver è l’ambizione corrotta che acceca e distrugge. Sono antagonisti perfetti perché sono specchi distorti dei protagonisti.

Nel corso delle stagioni, la serie ci regala momenti di pura adrenalina (risse scolastiche coreografate meglio di certe scene da blockbuster), ma anche scene intime e toccanti, come il ritorno di Daniel a Okinawa o la riconciliazione tra Johnny e Robby. Non mancano le esagerazioni, certo, ma fanno parte del gioco. Cobra Kai sa di essere un melodramma con il gi e il cinturone, e non se ne vergogna affatto.

Quando arriviamo alla quinta stagione, con un Silver ormai megalomane che vuole conquistare il mondo del karate, la posta in gioco sembra quasi surreale, ma è anche il momento in cui la serie si diverte di più. E noi con lei. L’alleanza tra Daniel, Johnny, Chozen e persino Mike Barnes è puro fanservice in salsa épica, con un tocco di commedia d’azione da buddy movie. E funziona. Oh, se funziona!

Poi arriva la sesta stagione, quella che avrebbe dovuto essere il gran finale. E invece… viene spezzata in tre parti. Una scelta che spezza anche il ritmo narrativo e frammenta un po’ l’esperienza, spostando troppo spesso il focus dai ragazzi ai sensei. Certo, vedere Daniel e Johnny cercare di fondere le loro filosofie è interessante, ma il cuore della serie sono sempre stati gli allievi. Quando la narrazione se ne dimentica, si perde qualcosa.

Per fortuna, nella terza parte la serie ritrova sé stessa. Johnny torna al centro della scena, Cobra Kai è di nuovo il nemico da battere, e il finale — per quanto non perfetto — è una lettera d’amore ai fan di lunga data. Il cast si conferma straordinario, anche se molti personaggi vengono sacrificati per far spazio ai grandi eventi. È il prezzo da pagare per un affresco così ambizioso.

Cobra Kai chiude il suo arco con coerenza emotiva, tra alti e bassi, e con la promessa di un nuovo inizio all’orizzonte: il film Karate Kid: Legends. Un titolo che già da solo fa tremare le gambe ai nostalgici e accende i sogni dei nuovi fan.

È stato un viaggio lungo, fatto di sudore, lacrime, ossa rotte e sorrisi. Ma soprattutto è stato un viaggio umano. Perché alla fine, Cobra Kai non è solo una storia di karate. È una storia di seconde possibilità. Di padri e figli. Di vecchie ferite e nuovi legami. È una serie che ci ricorda che non è mai troppo tardi per cambiare. O per lanciare un bel calcio al passato.

Redazione

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