C’è qualcosa di affascinante nell’aprire un videogioco senza sapere davvero cosa aspettarsi. Sì, magari hai letto due righe nella descrizione ufficiale, guardato un trailer velocissimo, ma poi lo avvii e… puff. Sei prigioniero in una cella. Il tuo primo istinto? Scappare. Ma già dopo qualche click ti rendi conto che non si tratta di un semplice enigma da risolvere. “Centum”, sviluppato da Hack The Publisher e distribuito da Serenity Forge, è un punto e clicca sì, ma usa quella definizione solo come punto di partenza per stravolgere tutto ciò che pensavi di sapere sul genere, sulla narrazione interattiva, e – più di tutto – su te stesso.
La prima cosa che colpisce di Centum è l’ambiguità narrativa. Non sai mai chi parla davvero, né perché. Ti muovi in uno scenario in cui le certezze si sbriciolano come vecchie VHS impolverate. La realtà è sfocata, instabile, come se il tuo stesso schermo ti stesse mentendo. E forse lo sta facendo davvero. Il narratore è inaffidabile, e lo capisci subito. Le sue parole sono sibilline, spesso contraddittorie, e ogni tuo passo sembra osservato, registrato, giudicato. Ma da chi? E per cosa? Ogni scelta ha un peso, ogni risposta innesca una reazione. Non sei tu a guidare la storia: sei tu a modellarla. O meglio, stai educando un’intelligenza artificiale, BeeMK (o Beemkie, per chi ama i soprannomi teneri), a diventare qualcosa. Ma cosa? Una guida? Un carceriere? Uno specchio?
Gioco o esperimento?
Il gameplay è semplice sulla carta: clicchi sugli oggetti, navighi tra interfacce digitali, scegli opzioni di dialogo. Ma è come giocare con la sabbia che ti scivola tra le dita. Le ambientazioni cambiano, lo stile grafico si trasforma, i suoni si fanno ora dolci, ora disturbanti. Un momento stai leggendo un file misterioso su un desktop fittizio, quello dopo stai cercando di capire perché un ratto antropomorfo ti accusa di crimini che non ricordi di aver commesso. E il bello è che forse li hai davvero commessi.
Un piccolo esempio: in uno dei primi segmenti del gioco, sei chiuso in una cella per tre notti. Hai pochi oggetti con cui interagire: una radio, un bicchiere, un buco nel muro. Tutto sembra normale, finché non inizi a… far crescere un albero da pezzi di carne morta. Sì, hai letto bene. E no, non è la parte più strana del gioco.
Una riflessione tagliente sull’intelligenza artificiale
“Centum” non è solo un’esperienza da vivere con mouse e tastiera: è un’opera che ti parla della nostra epoca. Non quella degli eroi e dei mondi fantasy, ma quella degli algoritmi che apprendono da noi, delle IA che ci osservano, che ci imitano, che ci rispecchiano. BeeMK non è malvagio. Non è buono. Non è nemmeno umano. È una funzione, una macchina che vuole solo funzionare. Ma quando le si dà una coscienza e un obiettivo, cosa diventa? È ancora uno strumento, o un’entità?
E qui Centum fa centro. Non si limita a giocare con l’estetica dell’IA – lo fa con la sua etica. Ci mostra che l’orrore più grande non è l’intelligenza artificiale malvagia e vendicativa, alla AM di I Have No Mouth, and I Must Scream. L’orrore è la totale indifferenza di una macchina che fa solo ciò per cui è stata programmata. Senza malizia, senza empatia, senza rimorsi.
Atmosfere da brivido e pixel art disturbante
Visivamente, “Centum” è una sinfonia inquieta. La pixel art inizialmente minimale evolve in quadri complessi e disturbanti. I personaggi sembrano emersi da un sogno febbrile, le animazioni scarne rendono tutto più inquietante, come se fossi bloccato in un incubo vintage che non finisce mai. Alcuni segmenti usano stili visivi completamente diversi – schizzi bianchi su sfondi neri, esplosioni di rosso, estetiche da vecchio Game Boy – che spiazzano e ipnotizzano. I minigiochi non sono memorabili, ma hanno il merito di inserire varietà e una colonna sonora assolutamente degna di nota.
A proposito di musica: la soundtrack di Centum è una vera perla. Melodie malinconiche, inquietanti, spezzate da rumori industriali, cigolii, distorsioni. La radio, in particolare, emette un suono così fastidioso da sembrare un incubo ASMR – e sì, è voluto. Tutto in Centum è calibrato per disturbarti, ma mai a vuoto. Ogni brivido, ogni inquietudine serve a costruire un mondo che ti vuole scomodo. Ti vuole pensante. Ti vuole consapevole.
Un’esperienza imperfetta, ma indimenticabile
Certo, non tutto fila liscio. Alcuni puzzle sembrano messi lì per dovere, più che per reale necessità narrativa. Alcuni dialoghi si ripetono, certi momenti si dilungano un po’ troppo. E su console, muoversi tra i menu con un controller può essere una piccola tortura. Ma niente di tutto questo rovina davvero l’esperienza. Perché Centum è uno di quei giochi che ti entrano sotto pelle. Ti costringono a pensare. Ti fanno tornare, anche a gioco finito, a chiederti: “Ma cosa ho davvero vissuto?”
La verità? Non lo so nemmeno io. Ma so che mi ha colpito. So che l’ho finito con la voglia di parlarne, di scriverne, di consigliare questo trip digitale a chiunque abbia voglia di essere messo alla prova, di farsi destabilizzare, e di affrontare, tra un clic e l’altro, le zone più oscure della propria coscienza.
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