C’è una scintilla elettrica che mi attraversa la pelle ogni volta che parlo di intelligenza artificiale. Forse perché, da nerd incallita e da eterna curiosa del futuro, guardo a queste tecnologie con lo stesso entusiasmo con cui da bambina mi perdevo nei libri di Asimov o nelle utopie digitali di Ghost in the Shell. Eppure, oggi quella scintilla si mescola a una certa inquietudine. Perché se da una parte la mia mente razionale è rapita dalle incredibili potenzialità dei modelli generativi, dall’altra il mio cuore, quello che batte ancora forte per ogni forma d’arte, non può ignorare il grido che si alza da centinaia di voci nel Regno Unito.
Parlo dell’appello di oltre 400 artisti britannici – un coro che comprende leggende viventi come Paul McCartney, Elton John, Dua Lipa, Kazuo Ishiguro, Ian McKellen – che si sono uniti per difendere un principio tanto semplice quanto rivoluzionario: la creatività umana non è una risorsa gratuita. Non è un database a disposizione degli algoritmi. È carne viva, anima, storia. E come tale, va protetta.
La lettera aperta al Primo Ministro Keir Starmer è un grido di allarme e insieme un atto d’amore. Un atto politico, direi. Perché oggi non possiamo più permetterci di vedere la tecnologia come un’entità neutra. Gli algoritmi che generano canzoni, scrivono racconti o compongono sinfonie non sono figli del nulla. Sono addestrati, come si dice in gergo, su enormi quantità di dati. E quei dati sono, il più delle volte, opere d’ingegno umano, spesso prelevate senza consenso.
Il lato oscuro della meraviglia
Io amo l’intelligenza artificiale, davvero. Non è una passione passeggera, è una fede laica e razionale che coltivo da anni. Lavoro con questi strumenti, li studio, ne esploro i limiti e le promesse. Ma proprio perché li conosco da vicino, so bene che dietro l’apparente magia si cela una fame insaziabile. Quella dei modelli generativi, da ChatGPT a Midjourney, è una fame di contenuti. Più dati ingeriscono, più imparano, più diventano “bravi” a imitare. E l’imitazione – lo sappiamo – può essere tanto affascinante quanto inquietante.
Quello che mi preoccupa, però, non è l’IA in sé. È l’ecosistema intorno ad essa. Sono le grandi aziende tech che spingono per leggi più “flessibili”, che considerano il diritto d’autore come un ostacolo alla crescita, non come una conquista di civiltà. È l’idea, subdola, che l’artista debba essere lui a fare il giro dei siti per dire “no, non voglio che il mio lavoro venga usato”, quando invece dovrebbe essere l’azienda a chiedere permesso. Stiamo davvero girando il mondo al contrario?
Un appello per l’equilibrio
L’emendamento proposto dalla baronessa Beeban Kidron è, a mio parere, una boccata d’aria fresca. Non è una chiusura alla tecnologia, ma una richiesta di trasparenza, di rispetto, di equilibrio. È un tentativo – concreto, urgente, politico – di costruire un ponte tra il genio umano e il potenziale delle macchine. Di creare un’alleanza, non un saccheggio.
Perché l’IA può e deve imparare dalla creatività umana. Ma solo se quel processo è regolato, consapevole, giusto. Solo se gli autori vengono riconosciuti e, soprattutto, compensati. Siamo davanti a una rivoluzione e ogni rivoluzione, lo sappiamo, porta con sé delle fratture. Ma il modo in cui le gestiamo dirà molto su che tipo di società vogliamo costruire.
Il diritto d’autore non è un freno all’innovazione
In questo momento storico così delicato, è facile cadere nella trappola del tecnottimismo cieco, quello che dice “avanti tutta, il futuro non aspetta”. Ma la vera innovazione – quella che non lascia dietro di sé macerie – si fonda sul dialogo, sul rispetto delle regole e sulla capacità di ascoltare. Ed è per questo che la voce degli artisti deve essere ascoltata, non soffocata sotto il peso dei giganti tecnologici.
Kazuo Ishiguro ha detto: “Perché dovremmo cambiare le nostre leggi sul copyright solo per fare un favore a poche grandi aziende?” E io aggiungo: davvero vogliamo un mondo dove le IA creano contenuti a partire da materiali che nessuno ha mai autorizzato? Dove il lavoro di un giovane musicista può essere spezzettato, assimilato e restituito da un algoritmo senza che nessuno lo sappia? Questo non è futuro. È appropriazione indebita, mascherata da progresso.
La tecnologia può essere umana
Non voglio vivere in un mondo dove la tecnologia è contro l’uomo. Voglio viverci insieme, in equilibrio. Un mondo dove l’intelligenza artificiale aiuta gli scrittori a trovare nuove parole, ma non ruba i loro romanzi. Dove un software può suggerire melodie ispirate, ma non si appropria delle emozioni di un brano scritto di notte, con le lacrime agli occhi. Voglio che le IA siano alleate, non cloni privi di etica.
L’emendamento Kidron è solo l’inizio. Ma è un inizio importante. È la dimostrazione che possiamo ancora scegliere. Possiamo decidere se costruire un ecosistema digitale sostenibile, dove la creatività umana resta al centro, oppure cedere alla logica dell’automazione cieca e del “tutto è gratis se è online”.
Un futuro che possiamo ancora scrivere
Questa non è solo una questione britannica. È una questione globale, che riguarda tutti noi. I nerd, i geek, gli artisti, gli sviluppatori, i fan delle AI e quelli che ancora non si fidano. Tutti. Perché la cultura è un patrimonio collettivo, e le regole che oggi scriviamo nel Regno Unito, domani potrebbero ispirare scelte in Europa, in America, nel resto del mondo.
Il voto alla Camera dei Lord sarà un momento chiave. Un piccolo tassello di un puzzle molto più grande. Io spero, con tutto il mio cuore nerd, che vinca la via del dialogo. Che si trovi una strada per far convivere la meraviglia tecnologica con il rispetto per chi quella meraviglia l’ha ispirata, spesso senza nemmeno saperlo.
E voi cosa ne pensate? La creatività umana ha ancora un posto centrale nel nostro futuro digitale? L’arte può coesistere con l’intelligenza artificiale, o rischiamo di perdere qualcosa di essenziale lungo la strada?
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